Il cane e l'uva (acerba o sultanina)

Dalla favola di Fedro ai pastori del Périgord
Il cane mangia l'uva - © www.giornaledibrescia.it
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«Nondum matura est...». Il difficile rapporto tra la volpe e l’uva, qui raccontata da Fedro, rimbalza da duemila anni sulle pagine di lingua latina. Nel dialetto bresciano invece fa capolino da secoli un legame tra il dolce grappolo e il cugino domestico della furba selvatica: il cane.

Mi ha sempre colpito l’espressione antica «can de l’ùa» che la generazione dei miei nonni utilizzava quando - scherzando coi nipotini - voleva mettere in scena una finta arrabbiatura. Come se noi oggi esclamassimo «perbacco» o - come Hugh Grant con Julia Roberts in Notting Hill - «perdindirindina». Qualcuno fra i nostri nonni, per rendere l’esclamazione ancor meno spaventevole, la addolciva in un «can de l’ùa pàsa». La morbida uva sultanina.

Mi sono sempre chiesto come possa essere nato questo incontro fra il cane e l’uva. Ho trovato una traccia che mi pare credibile e che vi giro tale e quale. Porta al Cinque e Seicento lombardo, con le nostre terre attraversate da armate tedesche, francesi, spagnole. In particolare, sarebbero stati i francesi a portare l’epiteto «chien à l’oie» (che da noi suona scièn a l’uà) che nell’originale significa «cane da oche». Nel Périgord infatti il pastore di oche era aiutato da un cane, quello che i bresciani avrebbero definito un «ca paradùr».

Nel linguaggio della soldataglia francese, che certo preferiva la scorribanda alla pastorizia, dare a qualcuno del «cane da oca» era forse modo per offendere. È una vera fortuna che i nostri nonni, al contrario della volpe di Fedro, abbiano trovato un’espressione acerba e abbiano saputo invece renderla dolce. Come l’uva passa.

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