«Giuseppe, che se n'è andato volando libero nell'aria»

Il ricordo di chi non ce l’ha fatta, nelle parole di Emanuela Saccalani, ortopedica all'ospedale Esine
«Lasciami andare nell’aria, tanto chi lo saprà. Ti prego» ha chiesto Giuseppe alla dottoressa
«Lasciami andare nell’aria, tanto chi lo saprà. Ti prego» ha chiesto Giuseppe alla dottoressa
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Prosegue la pubblicazione delle testimonianze di «Cuori in prima linea»l'iniziativa promossa da Giornale di Brescia e Intesa Sanpaolo: abbonamenti trimestrali gratuiti al GdB in versione Digital per il personale sanitario e la possibilità per gli operatori che hanno affrontato la pandemia in tutta la sua durezza - professionale e psicologica -, di raccontare le storie vissute durante la pandemia per farne un prezioso patrimonio di testimonianze da preservare.

Le storie possono essere inviate all'indirizzo email cuorinprimalinea@giornaledibrescia.it.

Dopo tanti anni in Traumatologia all’ospedale Civile di Brescia, l’autunno scorso ho deciso di cambiare vita e mi sono trasferita a Esine per proseguire in Valcamonica il mio viaggio di essere umano-medico. Dopo pochi mesi, la nuova esperienza si è scontrata con il mostro che ha impaurito e bloccato tutto il nostro mondo. Per fortuna ho trovato in quelle settimane terribili e destabilizzanti tante persone con cui condividere i momenti di scoramento e a cui appoggiarmi per non crollare.

Posso dire che la valle mi ha squadrata, valutata, accettata e accolta a tempo di record e ho trovato una seconda famiglia. Cosa mi resterà di tutto questo, oltre alla spossatezza mentale, al senso di inadeguatezza, alla paura quotidiana e all’umano, vigliacco sollievo di essere sopravvissuta? L’immagine che mi accompagna, anche quando chiudo gli occhi la sera, è quella di Giuseppe, seduto sul bordo del suo letto, in lacrime mi chiede, mi prega di non rimettergli la cpap, la maschera che da giorni lo aiuta ed insieme lo tormenta. «Rimettiamola, Giuseppe, ti aiuta a respirare». Ma lui voleva solo essere libero da quella morsa, da quella pressione; sentire sul viso l’aria vera, fresca. «Lasciami andare nell’aria, tanto chi lo saprà. Ti prego».

Dopo tempo, tanto, passato a cercare di consolarlo, di farlo ragionare, di fargli ricordare i suoi nipoti e dopo aver aperto la finestra per far entrare quell’aria che fisicamente e mentalmente tanto gli mancava, finalmente si è convinto a sdraiarsi e a mettere almeno gli occhialini nasali. Dopo un’ultima carezza e dopo le ultime lacrime condivise, si è assopito e la notte è trascorsa tranquilla. Non avrei mai voluto lasciare andare quell’uomo che tanto ha lottato anche nei giorni successivi a questo tracollo emotivo, oscillava tra giornate serene e altre più complicate, riusciva a comunicare un po’ con i parenti, con quell’impaccio a usare il cellulare proprio degli uomini della sua generazione.

E poi una mattina, arrivando in corsia, ho visto il suo letto occupato da un viso che non riconoscevo, pur guardando con attenzione. E a un certo punto la verità mi ha colpita in pieno petto: Giuseppe se n’era andato il pomeriggio precedente, senza di me a vegliarlo. Non so se sia stato il destino o il suo pudore di uomo antico, fatto sta che non ha voluto che lo vedessi cedere alla fatica e allo sconforto della lotta contro questa malattia terribile e vigliacca. Mi è stato risparmiato vederlo andar via coperto da un lenzuolo bianco, solo e ormai arreso. «Volato nell’aria», come diceva lui. Ma da allora, quando arrivo in reparto, i miei occhi cercano i suoi e la mia mano cerca un’ultima carezza consolatoria. Per entrambi.

Emanuela Saccalani - ortopedica ospedale Esine

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