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Vent'anni senza Bortolotti, il ribelle triste

Infortuni e delusioni: il 2 settembre del 1995 il talento del Brescia decise di farla finita
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Si fa presto a dire che il calciatore è il lavoro più bello del mondo, che non devi aver paura di sbagliare un calcio di rigore e che non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, ma queste sono frasi che vanno bene per una canzone. Poi c’è il campo, la routine, la vita di tutti i giorni. E il calcio può farti male. Ferirti dentro e fuori. Per Edoardo Bortolotti fu così. 

Oggi sono vent’anni senza quel capellone ribelle e triste, fuori epoca, così anticonformista che il suo tempo sarebbero stati gli anni Sessanta-Settanta, quando Gigi Meroni girava con una gallina al guinzaglio per le vie di Torino e Gianfranco Zigoni si presentava con una pelliccia da donna sopra la maglietta quando il mister di turno lo mandava in panchina.

Era così Edo: in direzione ostinata e contraria. Oggi sono vent’anni che ha detto basta. Si gettò dal balcone della casa dei genitori a Gavardo, dopo essersi lasciato alle spalle anni di promesse non mantenute. Debuttante non ancora maggiorenne in B con la V sul petto, convocato in Under 21, finito nel giro delle grandi con la Roma che l’aveva opzionato e poi mollato quando si ruppe una gamba in un Lucchese-Brescia nel gennaio del 1991.

All’epoca era già entrato in contatto con la parte più brutta, viscida, ruffiana del mondo del pallone e con alcuni amici che volevano solo i suoi soldi senza restituirgli affetto, calore, buoni consigli. Il 28 aprile del 1991 torna a disposizione di Bolchi, va in panchina in Brescia-Modena e alla fine viene estratto per l’antidoping. Pochi giorni dopo nelle sue analisi trovano tracce di un metabolita della cocaina. Scatta la squalifica: un anno. Torna in serie A, nel ’92-93: 11 presenze con Lucescu, ma non finisce la stagione, agli ultimi allenamenti nemmeno si presenta.

Prova a ripartire dal Palazzolo con Zanchini in serie C (6 presenze), poi con il suo Gavardo in Promozione. Ma finisce a giocare a carte al Circolo dei combattenti. Le sue giornate scorrono lente, tra depressione, pastiglie e demoni interiori che non lo abbandonano. La morte dell’adorata nonna, dalla quale per un certo periodo era anche andato ad abitare, è la mazzata definitiva. 

La vita per Edoardo Bortolotti perde di significato. Il calcio che poteva dargli tutto, gli ha tolto tutto. Quell’inquietudine che aveva dentro era maturata per scene, momenti, personaggi vissuti male, che non gli andavano a genio, che l’avevano deluso. Non tutti hanno la forza di reagire, di farsi scivolare addosso il peggio. La sensibilità può diventare un problema. E Bortolotti era molto sensibile. Credeva nell’amicizia, nella meritocrazia, nella sorte che con lui non era stata certo benevola. Gli aveva dato il talento, ma non bastava. 

Vent’anni dopo rivive nei cori dei tifosi (a Orzinuovi gli hanno dedicato un Brescia club), in chi l’ha conosciuto e apprezzato, in chi non può dimenticare quegli occhi che trasmettevano un disagio. Ma così belli, sinceri. 

Cristiano Tognoli

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