Un'alleanza tra chirurghi e oncologi

Il prof. Portolani: «Il vero progresso nella cura del tumore al fegato è legato all’evoluzione delle terapie molecolari»
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Da pratica a clinica, intessuta di conquiste, paure ed azzardi, a scienza complessa. Secoli sono trascorsi da quando la chirurgia era cura manuale delle lesioni esterne in alternativa alla più nobile medicina interna. Il progresso è stato fulmineo, soprattutto negli ultimi decenni duranti i quali si è imposta una tecnologia avanzata, portatrice di importanti novità ma, anche, talora di aspettative infondate.

La rivoluzione tecnologica, guidata dalla mano e dalla mente del chirurgo, è solo uno degli aspetti della complessità della disciplina. A maggior ragione nella terapia del tumore al fegato, una delle neoplasie che ha una forte incidenza in provincia di Brescia, con circa 37 casi ogni centomila abitanti, pari a quella di Bergamo ed inferiore solo a Napoli, dove i casi sono oltre 40 su 100mila.

Il perché lo chiediamo al professor Nazario Portolani, che da un anno ha sostituito il prof. Stefano Giulini alla direzione della Clinica chirurgica dell’Università degli Studi di Brescia e della Chirurgia generale 3 dell’Ospedale Civile, realtà in cui si curano circa 300 casi l’anno, con sessanta interventi solo su tumori primitivi del fegato, 80 includendo anche le metastasi. Viene considerato «centro di alto volume» quello in cui gli interventi sono almeno 25 l'anno.

Il vero progresso nella cura del tumore al fegato non è legato all'innovazione tecnologica, ma all'evoluzione delle terapie molecolari che oggi permettono di operare persone che un tempo avremmo dichiarato inoperabili. Il vero balzo in avanti è stato fatto dall’oncologia medica e da ciò ne trae grande beneficio anche la chirurgia. Nella terapia dei tumori la vera rivoluzione è legata al superamento della separazione tra le due équipe, quella dei chirurghi e quella degli oncologi, che oggi lavorano in piena collaborazione più che in un recente passato. E tra le molte altre figure professionali, radiologi in primis, con le quali si collabora per ottenere i risultati migliori, ricorrendo alle conoscenze più avanzate. Nessuno più può pensare di poter curare da solo il «suo» paziente: si deve decidere insieme, per il bene del malato. Questo non ha nulla a che vedere con la tecnica utilizzata in sala operatoria: non è certo ricorrendo alla chirurgia mini-invasiva che si garantisce una maggiore sicurezza, nè è automatico che, rendendo l'intervento, per così dire, meno gravoso e quindi più gradito al paziente, si faccia in ogni circostanza realmente il meglio per lui. La tecnologia deve semplificare il gesto tecnico ed a questo fine va utilizzata quando correttamente indicato.

Lungo è l'elenco delle possibilità terapeutiche per la cura del tumore al fegato, legati al numero di masse tumorali presenti, alla loro posizione, al volume e al fatto che si siano già diffuse al di fuori dell'organo. Molte persone, un tempo dichiarate non operabili, ora lo sono dopo un trattamento chemioterapico. Per altre, è possibile ricorrere a tecniche innovative prima dell'intervento, quali l'embolizzazione o la rimozione del tumore con l'alcolizzazione o la radiofrequenza, in alternativa alla resezione epatica. A fronte di un quadro tanto articolato, qual è la strategia per spiegare al malato che l'indicazione non può essere dettata dalla mini-invasività della metodica, ma da valutazioni ben più complesse?

L'atteggiamento corretto è quello di valutare, insieme ai colleghi delle altre discipline e informando il paziente, il miglior trattamento e la migliore combinazione di cure. Potrebbe sembrare scontato, ma non è così. Questo approccio permette di proporre interventi chirurgici che pochi decenni fa presentavano un rischio elevatissimo per il paziente. Un esempio: qualche anno fa, quando un paziente aveva metastasi epatiche, non si curava chirurgicamente nemmeno il tumore primitivo, ovvero quello nella sede del corpo da cui ha avuto inizio la malattia. Certo, si faceva la chemioterapia, ma in questi casi di sola chemio non si guarisce e l'aspettativa di vita per il malato era di pochi mesi. La situazione attuale è completamente mutata: ci sono farmaci molto più attivi e la frase «non c'è più nulla da fare» non viene più pronunciata, nemmeno di fronte alle metastasi epatiche. Le possibilità sono molte. Intanto, prima di decidere se intervenire chirurgicamente, si possono sottoporre i pazienti alla chemioterapia neoadiuvante, o a trattamenti locali mirati per ridurre il volume delle metastasi, in modo da poterle asportarle con meno rischi. Risultato? Si riesce a cronicizzare la malattia e a vivere più a lungo, con una buona qualità di vita.

 

 

I risultati non sono ancora del tutto soddisfacenti: a cinque anni dalla diagnosi, vive «solo» il 60% delle persone con un tumore epatico primitivo, meno della metà di chi ha metastasi. Percentuali che, comunque, si raggiungono solo in centri in cui esistono équipe multidisciplinari. Solo analizzando caso per caso si può definire la migliore procedura per quel singolo paziente; è sempre meno frequente che il paziente venga trattato con una sola terapia piuttosto che con una serie di cure in sequenza.

A proposito di esigenze, lei ritiene che sia importante comunicare al paziente la diagnosi di tumore, anche se si tratta di una persona anziana?

La diagnosi deve essere comunicata per intero e alla persona devono essere spiegate, nel dettaglio, le prospettive di cura. Questo vale per tutti, ma in particolare per gli anziani che hanno diritto di decidere cosa fare della loro vita, senza mediazioni o interpretazioni. Con il paziente non bisogna barare, pena la perdita di fiducia nei confronti del medico e di quanto egli andrà a proporre. Non è corretto estorcere un consenso ai trattamenti senza che la persona sia stata informata in modo chiaro sulle prospettive che le derivano dalle terapie.

Quanto incide la medicina molecolare sulla terapia del tumore al fegato?

Incide moltissimo, ed è il vero progresso. Tanto che ritengo sia poco produttivo investire nell'acquisto generalizzato di nuovi macchinari, se non finalizzati alla risoluzione di specifici problemi; il miglioramento della prognosi lo si potrà ottenere in modo significativo solo dando un impulso alla ricerca scientifica. Oggi consideriamo la metastasi epatica come tumore che si è fermato al primo filtro, il fegato. In realtà, non sappiamo dove, e quando, la malattia tornerà con una recidiva. La risposta ce la può dare solo la ricerca. //

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