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Le sorprese di un richiamo sommesso

Dai fasti della capitale che celebra sulla riva del Tago la gloria e l’epopea di un popolo di navigatori alla magia dell’Alfama.
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«È la luce, la sua luce purissima che non si trova in nessun’altra parte del mondo a creare l’incanto di Lisbona e la saudade di cui ci ammaliamo» mi dice il collega della Lusa (l’agenzia di stampa portoghese) con cui mi intrattengo a chiacchierare nel piccolo patio fiorito del «Parreirinha de Alfama». Il famoso ristorante, palcoscenico delle stelle del fado, è nascosto nell’intrico di vicoli dello storico quartiere proletario della capitale portoghese da cui prende il nome, dove è nata quella struggente musica di un popolo assetato di nostalgia, le cui note, da secoli, sfidano il sonno nelle notti lusitane.

Ci si arriva, risalendo col mitico, sferragliante tram n. 28 la scoscesa collina, tra vecchie case affacciate su angusti vicoli, dove, scriveva Pessoa, il cuore «accompagna col piede la melodia delle canzoni che il mio pensiero canta, tristi canzoni, come le strade strette quando piove».

Niente a che vedere con gli ampi viali della «Baixa», il quartiere simbolo della rinascita di Lisbona dopo l’immane distruzione del terremoto del 1755. Il suo cuore si affaccia sul Tago, in «Praca do Comercio», l’immensa piazza che celebra il fasto e la gloria di quel popolo che per primo ha navigato tutte le rotte del mare Oceano e toccato le più remote regioni della terra, riportandone spezie e oro e argento e un’iperbolica ricchezza le cui vestigia sono tuttora ben visibili nello straordinario patrimonio artistico del paese.

Austere cattedrali che celano mirabolanti interni di trionfante barocco, sontuosi palazzi, stupefacenti monasteri, per non tacere la delicata malinconia degli azulejos.

Eppure il Portogallo è un Paese che curiosamente esercita solo un sommesso richiamo sul turismo di massa, salvo poi sorprendere con un tripudio di monumenti, paesaggi, gentilezza e ospitalità. Non solo nella capitale, ma, ad esempio, nei tre grandi monasteri patrimonio dell’umanità di Batalha, Alcobaça e Tomar, dove al gotico fiammeggiante si aggiunsero i fasti esuberanti dello stile manuelino per lasciare attonito il visitatore, stordito dalla maestria degli arabeschi tessuti di marmo abbagliante. Una gioia per gli occhi che errabondi non sanno più dove posarsi, ma trovano riposo nella delicata ombra delle navate dove giocano, cangianti, i riflessi multicolori delle vertiginose vetrate.

O nelle antiche città già colonie romane, poi conquistate dai barbari, soggiogate dai mori e riconquistate dai re cattolici che ne fecero centri di ricchi commerci e rinomata sapienza, come a Coimbra, sede di una blasonata università dove ancora oggi torme di studenti nei loro mantelli neri rallegrano con gli entusiasmi della gioventù i lastricati vicoli su cui si affacciano antiche dimore e il peso dei secoli. O la murata Evora, regina dell’Alentejo, capace di racchiudere nella stessa piazza i magnifici resti di un inconfondibile tempio romano del II secolo e la poderosa cattedrale (Sè) del dodicesimo. Tra quelle austere navate, trecento anni dopo, furono benedette le insegne che Vasco De Gama, bramoso d’Oriente, portò fino alla remota Cochin, favoloso regno sulle coste dell’India, inaugurando i secoli d’oro del Paese.

Ma è a Porto, la romantica, affacciata sulle rive del Douro pronto a sfociare nell’Atlantico che si celebra la degna fine del viaggio. Qui si assaporano ore indolenti, passeggiando tra le antiche strade che ad ogni angolo svelano una qualche meraviglia: una chiesa completamente ricoperta di azulejos, un monumento medievale, una grande piazza di maestosi palazzi beaux-arts. Fino al trionfo del tramonto sulle case della Ribeira, l’antico quartiere dove è dolce sedere sorseggiando un bicchiere del vino che lento matura nelle cantine sull’altra riva del fiume. Ultimo dono di un tempo sospeso, ultimo regalo di quell’estremo lembo dove l’Europa finisce, ma non finisce lo stupore.

Luigi Gorini

 

 

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