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Palla al piede

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Dalle finestre del pensiero si diluivano i pensieri multietnici più svariati, non ancora annientati dalla monotonia delle sbarre, della reclusione, della sofferenza trascinante. Nelle spirali evocative del ricordo, una tenue "Je suis venue te dire que je m'en vais" risuonava nella mente di Kamal, a rammentare la voce esile di sua moglie, ora distante, ora avvicinata dalle melodie più tiepide dell'animo. Un paesaggio acrilico che si spennellava tra le tempie, un arancione desertico di volti lasciati all'esterno, ma mai scordati. Kamal sistemava con delicatezza la sua camicia lurida, un tempo bianca splendente, ricamata con la delicatezza femminile che aveva trasformato il rispetto formale e amichevole in amore travolgente e pervasivo. La ricordava come l'aveva lasciata: magra, quasi spigolosa, sempre china a curare il fabbisogno altrui con le premure solite di una donna. Meriam. . .

Dalla voce di colomba bianca, dai tratti onirici di una dea egizia, invischiata nell'inchiostro che qualche Dio aveva impiegato per dare vita al Mondo. Seduto sul suo letto a castello,il primo di una lunga trafila verticale, tutto ciò che gli era rimasto a cui volgere un pensiero era l'esterno, l'aldilà preannunciato a un palmo dal naso, il nitido panorama bresciano, nebbioso e talvolta asettico. Una fabbrica per sognatori dispersi, nel posto errato, nell’equivoco degli equivoci, nella tirannia del tempo trascorso sconfinati in qualche angolo obliato. Non era però perduto nel ricordo, tra le mani della sua fanciulla. Si fissavano con gli occhi incollati l’uno sull’altra, come api sui rivoli d’acqua estiva.

Le fessure delle palpebre lasciavano trasparire potenti incantesimi d’amore, fiabesche apparizioni di baci nell’aria, proiettili di coriandolo, mani di ciniglia intessute nella vicinanza. Ricordava l’odore del suo alito, la circonferenza dei suoi polsi stretti nell’atto di dare amore e ricavarne sublime piacere. Proprio allo schiudere degli occhi, il soffitto incolore tornava dinnanzi alle sue attenzioni. Quant’è vasta la fantasia? Quanto sono lunghi gli artigli dell’immaginazione, che toccano montagne e spostano fotogrammi depositati sul fondale della memoria? Con il cuore riluttante al magone, spiccava il volo verso ogni dove, cullato dai refoli maldestri della riflessione. Un muro diveniva cautamente il pavimento e le finestre minute il trampolino verso i bollori dell’estate. La sua schiena si ripiegava su di sé e suonava indomita “Besame mucho” quasi fosse una fisarmonica gitana, nelle mani pronte e preparate di qualche arlecchino per le strade di una metropoli sovraffollata. Sua madre.

Chissà dov’era, s’era in vita, se qualcuno si era curato di rimanerle accanto, di prestarle servizio, di agganciare anche uno solo dei suoi proverbi e di farle cenno con la testa, per acconsentire e vederle sfoggiare un sorriso, anche solo di circostanza. Sua madre imponente, un tempo instancabile, ora plastilina nei palmi del caso, tra gli incastri delle circostanze, debole e sola, e chissà in quale terra. In seguito all’immigrazione Kamal, incredulo, aveva reciso i fili di comunicazione con chiunque, non certo per scelta, ma per esigenze sempre più asfissianti di risparmio, di contegno economico, di ristrettezza volta alla sopravvivenza e al mantenimento della sua famiglia. Quello che rimaneva, quello che riusciva a ricordare. Perché le famiglie sono come oasi e miraggi, sempre visibili e intangibili, ovunque ci si volga. Ovunque si porga lo stomaco. E per Kamal era stato lo stesso: un furto, per cancellare con l’ardore di sfida i debiti contratti per avere garantita l’esistenza e in lontananza, come un neo o un’isola alla Peter Pan, i volti ridanciani dei suoi piccoli, i tratti somatici austeri del padre, gli occhi teneri come grano di Meriam, il rosso del furore africano, l’odore della ceramica. . .

Si alzò come meglio poté, prestando attenzione a non urtare con la testa il letto che lo sovrastava, avvicinandosi all’oblò scolorito in alto sul muro, quella finestra quasi trasparente tra la prigionia e la corsa, la fuga, la libertà. Con l’indice, ignorando la ragione di questo gesto, ne seguì i contorni, sporcandosi di polvere e di grigiore. “Diventerò un moscerino”, si promise per scagionare l’impellente bisogno di evadere. “Svolazzerò per il solo vezzo di infastidire qualche guancia, per recare fastidio a chi vive nell’angustia dell’immobilismo, a chi è libero di essere incarcerato nella sua stessa pozzanghera di ipocrisia.”, Sembrava un appello alle sue risorse sciamaniche, ai racconti che da piccolo avevano affollato le sue richieste insaziabili di conoscenza, quando si era spremuto purché lo scibile si cibasse di una continua, genuina curiosità.
Come da piccolo, era una mosca per le labbra affamate di chi digiuna. La sua sete non trovava sfogo nell’arsura, non era nato per l’inedia, né per la dimenticanza. Per questa ragione, ai primi sintomi di trascuratezza da parte di chiunque – Comune, vicino di casa, Stato, televisione – era impallidito per poi colorarsi di un rosso vendicativo che prometteva un riscatto, una vendetta a nome di tutto l’albero genealogico. Un grido per risvegliare la vita, per non tacitare l’ingiustizia. Perché Kamal era convinto che per quanto un’ingiustizia transitasse sotto gli occhi di tutti, non assumeva in nessun caso le sembianza della normalità, della giustizia, dell’uguaglianza più o meno prestabilita.

La disperazione non lasciava seguito, se non un piccolo sunto razzista su qualche giornale o su qualche trasmissione pronta a dare alla cronaca colori monocromatici giusto per fomentare terrore e ignoranza. “Ora assottiglierò le mie spalle e fuoriusciranno ali, cuspidi sfrontate contro le nuvole, radar pronti ad annusare nuova spregiudicatezza, rinomata libertà. Ora passerò da quelle grate, da quella serranda abbassata sull’anima, da quegli spuntoni puntati alle palpebre.”. Chiuse gli occhi, ancora. Un’immensa distesa si sparpagliava nella sua mente, color ocra deserto, color rosso di vivido sole che tramonta. Ma lui non sarebbe tramontato dentro la fune della cella nerastra, proprio no. Avrebbe spiccato il volo verso una meta imprevista e proprio per questo sarebbe stato un esaltante saltellare di fiore in pozzanghera, di cassonetto in vetrina, oltre le colonne della quotidiana franchezza spicciola: orari, fusi orari, il coricarsi e lo svegliarsi di tutta fretta, senza mai conoscere la direzione del tachimetro.

Ormai appiccicato alla finestra, Kamal cominciò a comprimersi e a rimpicciolirsi, come un bambino che sbatte ripetutamente i piedi a terra per far prevalere la sua volontà capricciosa, sinché dalla schiena mulatta non spuntarono due alette sotto gli occhi assenti, eppure sbigottiti dei suoi compagni di cella. Cominciarono a rianimarsi, a sgranare le pupille, a meravigliarsi e ad imprecare in dialetto. Ognuno aveva il suo dio da maledire, ognuno la sua espressione per mostrarsi incredulamente esterrefatto. Le dimensioni di Kamal, ora, erano irrisorie, minute, specifiche di un insetto. Prese a sollevarsi e a sbatacchiare contro il vetro, fino ad improvvisare una soluzione sul momento, virando a destra e superando le sbarre della sua cella, volando in mezzo al corridoio del terzo piano dell’istituto penitenziario, ignorando qualunque umano si ponesse sul suo cammino. Udì qualche urlo indecifrabile, ormai distante e sfrecciò senza sosta verso il portone che delimitava l’entrata.

Fuori tutto sembrava statico, come se il tempo fosse solo un discriminante qualitativo per giustificare la pena, come se quei fiori, quell’erba dovessero esserci a forza e qualcuno li avessi prontamente inseriti lì per rendere la tristezza un’intensa risata di benvenuto, meno disdicevole, meno inquietante. Appena colse la tonalità azzurra e primaverile del cielo, vi si scagliò contro. Un solo ronzio, contro il vento, verso il divenire. Un rombante addio, sdraiato fra una pernacchia alla prepotenza e il timore referenziale che sempre si prova verso un nuovo straripante viaggio. Lontano, sulla fremente spiaggia dorata di Essaouira, Amina dondolava il suo sguardo inseguendo le onde del mare, con le mani ricurve in segno di preghiera. Una brezza sospirosa agitava l’orizzonte, mescolando il blu del porto alla melanconica dolcezza. Il volto rugoso, scavato nella compiutezza dei giorni, godeva del refrigerio momentaneo e minuziosamente rideva come un bambino che sperimenta il godimento della suzione. I capelli legati con un nastro tremolavano quieti nel mormorio delle onde. Una mosca le volò attorno, posandosi sulle dita. Distrattamente, Amina riconobbe lo sfrigolio del cuore. Udì la voce asperrima del dispiacere. E poi si placò, scansando la mosca fastidiosa, ripensando a suo figlio. Da qualche parte, oltre quella riluttanza spumosa, Kamal stava pensando a lei.
Ne era certa, senza alcun dubbio. Una madre sa sempre che oltre le chilometriche distanze, oltre la muraglia del tempo e dello spazio, il cordone ombelicale resta lì, possente, a collegare l’Amore e l’infinito, i nervi e le articolazioni.
Aldo Quagliotti– Liceo delle Scienze Sociali “Bagatta” di Desenzano – Classe IV

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