Scienza

C'erano le foto senza il negativo

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Cappello e bastone erano sempre disponibili, con altri accessori. Per l'abito e i gioielli si ricorreva talvolta a prestiti da parenti e amici.

Negli studi fotografici dei primi decenni dell'Ottocento poi non mancava mai il poggiatesta. Fedele alleato per restare assolutamente immobili per lunghi minuti: la luce catturava per sempre un attimo di vita, rubandolo allo scorrere del tempo.
Il fotografo di successo, all'epoca, ritraeva i personaggi più importanti e facoltosi: politici e attori, cantanti e scrittori, esploratori e musicisti.

La gente del bel mondo voleva avere il suo dagherrotipo, antesignano della fotografia moderna.
Louis Jacques Mandé Daguerre, l'inventore, nel 1839, della dagherrotipia, con la sua scoperta aveva tracciato la strada dei processi fotografici «a positivo unico».
«La luce riflessa dalla persona impressionava la lastra senza intermediazione chimica. Non esisteva il cosiddetto negativo per cui si trattava di esemplari unici, non riproducibili in serie», raccontano Gabriele Chiesa e Paolo Gosio: da veri appassionati, in oltre trent'anni hanno scovato prima in mercatini e poi con l'ausilio di eBay, centinaia e centinaia di pezzi unici, ritratti e immagini frutto delle tecniche fotografiche ottocentesche e dei primi del Novecento. Dagherrotipi, ma pure ambrotipi e ferrotipi: cambiava il supporto lastre di rame argentate, di vetro e di ferro, meno nobili le ultime due ma a portata delle classi meno agiate, ma la filosofia era identica.

Dopo decenni di collezionismo e di studio, un'idea: riunire per la prima volta in una pubblicazione in italiano, «Dagherrotipia, Ambrotipia, Ferrotipia. Positivi unici e processi antichi nel ritratto fotografico» edito da Youcanprint - ma esiste anche una versione eBook - una miriade di informazioni, poco o affatto conosciute, sull'universo dei fotografi ante litteram. Tutte le immagini, inedite, riproducono gli oggetti collezionati dai due autori.

Uno studio che ambiva alla celebrità, nel Diciannovesimo secolo doveva avere una sala per l'accoglienza dei clienti, un ambiente per rassettarsi e truccarsi, una camera oscura, il laboratorio di confezionamento e uno spazio per la scelta di cornici e astucci: il ritratto era elegantemente adagiato in preziose scatole foderate, cesellate da artigiani che già realizzavano custodie per gioielli e regali di prestigio.

Legno e pelle poi lasciarono il posto alla resina termoplastica. I cuscinetti in seta o raso, rosso cupo e mattone, giallo o arancione, ricoprivano l'interno del coperchio.
Monsieur Daguerre scoprì che i vapori di mercurio sviluppavano l'immagine sulla lastrina d'argento, in modo del tutto fortuito: un cucchiaio appoggiato per caso su una lastra dentro un armadio aveva lasciato la sua impronta. Si accorse, togliendo uno a uno i contenitori di sostanze chimiche riposti accanto, che l'effetto sorprendente era dovuto al mercurio.

I pionieri della fotografia avevano un altro cruccio. Che era poi una sfida: il colore. Percorsero allora la via della coloritura manuale, arte già ben sperimentata dai miniaturisti: in quella a secco, le polveri colorate e miscelate con gomma arabica venivano stese picchiettando lievemente la superficie del dagherrotipo, punteggiando e mai strofinando. Era uno dei modi richiesti per distinguersi dalla massa, quando i ritratti dagherrotipici divennero tanto frequenti da apparire comuni.

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