Cucina

Vino a bicchiere e tè: cresce la richiesta

La cucina globalizzata impone anche birra e tè. Cresce la richiesta di vino a bicchiere
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Riprendiamo il tema degli abbinamenti cibo-vino che abbiamo cominciato ad affrontare 7 giorni fa. Ed oggi ci riferiamo innanzitutto ad una situazione ben nota ai «sacri testi», ovvero l’abbinamento negato o giudicato fuori luogo.

In realtà la faccenda è molto più complessa e variegata anche per il mutare delle preparazioni in cucina e per il mutare del profilo dei vini. E poi va detto subito che la preferenza mediterranea per il vino a pasto è solo un corno del problema.

L’Italia del vino, che esporta sempre di più, sa invece bene che in gran parte del mondo il vino si beve a prescindere dal pasto e quindi i «vini bistecca», quelli così intensi che metterebbero in minoranza ogni piatto, hanno un loro mercato. Pensiamo a certi Barolo o gli Amarone vecchia maniera (che all’estero vanno di corsa) o molti vini meridionali.

Provate a tenere a tavola un amico nord europeo (a noi è accaduto in Austria) abbinando con cura un vino ad ogni piatto. Ogni tanto lo vedrete scomparire. Lo troverete al bar che si fa una birra. Se invece è il nord europeo che vi ospita, pasteggerete a birra e il vino di pregio comparirà solo alla fine, per chiacchierare, magari per fumare. I cinesi poi cominciano a importare, consumare e produrre parecchio vino. Ma a tavola si beve il tè, poi compare la grande bottiglia per solennizzare l’evento.

Così un buon sommelier (o un appassionato di viaggi) farà bene a provare gli abbinamenti delle birre che quanto a varietà di profumi non scherzano. Ci sono quelle chiare e quelle scure, quelle amarissime e superluppolate e le Blanche che sono fresche e delicate e le Trappiste alcoliche come un vino rosso. E in generale conviene sapoere che ci sono le birre «per bere» e le birre «per mangiare».

Se andate in Oriente non potrete bere tè verde con un piatto che invece si lega al tè nero o semifermento. Anche il tè ha mille varianti (c’è pure quello da colazione che sa di pop corn) probabilmente più del vino.Poi ci sono i distillati compresa la grappa che sa regalare sorprese.

Il cenno alla birra ci porta dritti al tormentone dei tormentoni per i golosi, quello del vino con il cioccolato. La regola canonica è che il cioccolato non si abbina con nessun vino, cosa piuttosto vera per i cioccolati gourmet oltre il 70% di cacao. Ma per gli altri si può scegliere.

È tradizionale che si consideri il Barolo chinato (o il brescianissimo Inchino, cioè Groppello chinato di La Guarda) un buon compagno del cioccolato, una regola da non prendere alla lettera perché dipende dal tipo di cioccolato. Si finisce spesso con il rifugiarsi sui vini passiti e liquorosi che però reggono a stento. I raffinati consigliano il Banyuls piuttosto del Sauternes. La cosa funziona con cioccolati abbastanza dolci o con un dolce al cioccolato.

Con il cioccolato puro l’ideale è un grande distillato che abbia subito un lungo affinamento. L’Whisky va bene, anche la Grappa affinata almeno una decina d’anni si difende alla grande. Devono essere ben presenti la morbidezza e la persistenza. Attenzione però a non esagerare con le libagioni perché la morbidezza di un distillato deriva dall’alcol.

Tutto sommato però la birra sembra proprio l’abbinamento ideale. La si può scegliere nella gamma delle birre dolci, tanto più dolci quanto lo è il cioccolato. Le cosiddette "birre di Natale" vanno benissimo con i dolci, meglio di molti vini. Molto bene anche le birre di malto scuro e tostato che spesso sanno anche un po’ di cioccolato. Convincono meno quelle di stile belga aromatizzate.

L’altro tormentone del mondo dell’abbinamento è quello del vino a bicchiere. Il calo dei consumi e il rischio per i punti patente lo hanno reso richiestissimo, con la ristorazione che recalcitra. In caso in cui è imprescindibile, a meno che non si sia in una tavolata numerosa (si tenga conto che una bottiglia bordolese vale circa 7 bicchieri di vino), è quello di un menù degustazione. È impensabile con un solo vino a tutto pasto a meno che non si ricorra alla scorciatoia dello spumante. Un grande Franciacorta millesimato non dosato, va fino ai secondi di carne anche di elevata grassezza e complessità.

La resistenza dei ristoratori ha poco motivo di essere. Esistono degli impianti che consentono di tenere le bottiglie aperte in atmosfera modificata conservandole a lungo come appena stappate. Ne abbiamo visti che promettevano di conservare intatto anche una Champagne di razza. È vero che sono abbastanza costose, ma la via del servizio a bicchiere sembra senza alternativa.

Ma è poi vero che un vino stappato si rovina? In proposito soccorre un studio recentissimo che è anche bresciano. Nessuno, in effetti, aveva mai svolto un lavoro scientifico su come evolve un vino in una bottiglia smezzata e per quanto tempo dura prima di non poter più offrire all’utente il piacere atteso.

L’ha fatto Claudia Ferretti del Centro Studi Assaggiatori di Brescia che ha presentato la ricerca al premio Soldera per giovani ricercatori testando quattro vini (due importanti: Barolo Mascarello e Soldera Igt Toscana 2006 e due vini giovani: Amastuola Primitivo e Donnafugata Nero d’Avola) subito dopo l’apertura e poi a 24, 96 e 144 ore. Il risultato? I vini importanti evolvono aumentando le note floreali e fruttate, evidenziando addirittura un indice edonico più alto a 24 ore dall’apertura. Evolvono anche i vini giovani e, pur avendo una modifica sensoriale differente, a 96 ore sono ancora accettabili. Quattro giorni dovrebbero bastare.

Gianmichele Portieri

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