Cucina

Il Trentodoc cresce puntando sui vigneti in quota

La corsa in salita delle bollicine. La zona allinea piccoli produttori di classe, ma anche le grandi cantine non scherzano
AA

La prima domanda che ti senti rivolgere tornando da un tour tra le cantine delle bollicine del Trentino è quasi monotona: sono al livello della Franciacorta? La domanda è comprensibile tenendo conto che il Trentino è la seconda zona per bottiglie di spumante metodo classico prodotte, dopo la Franciacorta appunto e il mercato di questa tipologia di pregio è piccolo piccolo.

Ma, come nell’abusato confronto con lo Champagne, tra Trentino e Franciacorta ci sono differenze notevoli di territorio e differenze enormi nella struttura produttiva. Il Trentino gioca le sue carte migliori sulle uve dei vigneti in quota (siano a 7-800 metri, ma qualche vigna in Val di Gresta è anche a mille metri). Il marchio di fabbrica dei Trentodoc è, di massima, la freschezza che non si manifesta più in acidità eccessive, ma in una certa soavità della beva. L’immediatezza del sorso di vino è, per quasi tutte le cantine, una filosofia produttiva che, come è noto, incontra molto i gusti del momento. Anche il disciplinare incoraggia in questa direzione. Sono consentiti fino a 150 quintali di uva per ettaro (in Franciacorta 95) e il riposo in bottiglia è minimo di 15 mesi (in Franciacorta 18) e per le riserve il minimo è 36 mesi (in Franciacorta 60).

Non che i trentini non sappiano produrre grandi riserve dalla struttura imponente e dalla grande complessità, ma non è certo questa la loro specialità. Anche se l’uva di montagna e il grande vino non sono certo in contraddizione. Il grande «Giulio Ferrari Riserva del Fondatore» (di cui è uscito un paio di mesi fa l’imponente millesimo ’95) nasce da una singola vigna a 700 metri di quota.

L’altra differenza è la struttura produttiva. Se i produttori sono 38 con 8 milioni di bottiglie, con la presenza di colossi come Ferrari e Cavit, ai piccoli produttori resta ben poco: al massimo 200mila bottiglie l’anno, ma spesso anche solo 50mila.

Poi qui c’è il fenomeno di una cooperazione che funziona e che ti da la sensazione di non essere più in Italia. Produrre grandi vini con l’uva di mille poderi, in media inferiori all’ettaro, appare un mezzo miracolo.

Come di consueto i trentini si promuovono, con una certa larghezza di mezzi, con la loro manifestazione dicembrina a Palazzo Roccabruna nella città del Concilio. Quest’anno, insieme al tradizionale confronto alla cieca, Trentodoc ha proposto una visita alle cantine.

Abbiamo così avuto l’occasione di assaggiare i vini di Letrari, illustrati dall’enologo di famiglia Lucia Letrari, ma anche da un grande delle bollicine trentine come Leonello Letrari, un ottantenne che ha ancora da dire la sua e che sa trasmettere ancora forti emozioni. Leonello Letrari è stato uno dei fondatori della mitica Equipe 5 nei primi anni ’60 quando lo spumante classico italiano era di là da venire. Le sue prime 55 vendemmie sono diventate un libro. L’azienda propone da qualche mese la sua Riserva del Fondatore, un Trentodoc affinato sui lieviti per 96 mesi che, non te lo aspetti, è ancora amichevole al primo sorso e di infinita persistenza dal secondo in poi.

Lucia Letrari ha le idee chiare. Dice che l’uso della barriques snatura il territorio. I suoi vini devono avere profumi contenuti e lunghezza. E ci riescono. Il più straordinario ci è parso il non dosato, nitido, intenso, ma senza spigoli. Un bellissimo esempio di cosa può dare quel territorio, mixando con sapienza uve di fondovalle e di vigneti in quota. Una sapienza che abbiamo ritrovato anche a Maso Martis con Antonio e Roberta Stelzer che vivono in un maso arrampicato sulla montagna a 450 metri di quota alle spalle della città di Trento. I due giovani viticoltori (Roberta è originaria di Serle) sono maestri nel dosare freschezza e morbidezza. Anche il loro non dosato è veramente grande, anche se ci è rimasto un gran ricordo dei loro vini a base di Pinot Nero, vitigno che, su questo monte, deve aver trovato il suo spicchio di paradiso. Il Pinot nero è profuso a piene mani nella Riserva, ma è al 100% in un rosato che si fa ricordare. Peccato che le due cantine di consolidata notorietà superino di poco insieme le centomila bottiglie.

Ma le sorprese dovevano ancora venire. La Cantina Mori Colli Zugna è una cooperativa con 692 soci e da quella gigantesca e modernissima struttura nascosta sotto le vigne, ti aspetteresti al più un vino onesto e corretto. Quando il direttore Luciano Tranquillini ci ha fatto assaggiare il nuovo Morus, abbiamo dovuto ricrederci. Vero che nasce da vigne fortunate ai piedi del Monte Baldo, vero che si usano sofisticate tecniche di cantina, ma pienezza e garbo, note di frutti bianchi e mineralità fusi così bene non te li aspetti. Se ne producono però solo 8mila bottiglie, in una cantina che ha una potenzialità di 8 milioni di bottiglie. Miracoli trentini e molta tecnologia, che spieghiamo qui sotto.

Gianmichele Portieri

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia