Cucina

Alla ricerca di immagine. Il mercato c’è già

Anteprima con un occhio soprattutto ai clienti esteri. Negli anni ’30 era uno dei bianchi italiani più pregiati
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Anche il Soave, il vino bianco veronese dai grandi numeri, ha puntato sulla sua Anteprima mettendosi al passo con il Brunello di Montalcino, il Chianti, il Nebbiolo e i vicini di casa Bardolino e Amarone. L’intento è evidente: ritrovata la qualità del prodotto, sia pure come vedremo con infinite variabili, si vuole ritrovare un’immagine di pregio che, alla caccia dei grandi numeri produttivi, questo vino aveva perso per strada.

Ma, dice il direttore del Consorzio Aldo Lorenzoni, «non partiamo da zero, ma da sotto zero, una faticaccia». Ora si riscopre che il Soave è stato il primo bianco italiano indicato come vino di pregio, ma era il 1931 e le Doc non c’erano. La risalita è stata lenta, tanto che la Docg per il Superiore è arrivata solo nel 2002 ed è ancora da valorizzare visto che di Superiore se ne produce pochissimo.

Il messaggio è rivolto soprattutto ai clienti stranieri. Un dato su tutti: solo il 16% dei quasi 60 milioni di bottiglie prodotte ogni anno resta in Italia. Tutto il resto va all’estero, Germania (30%) e Regno Unito (24%) in testa. Così si spiega perché l’anteprima del Soave si è chiamata Soave Preview ed è stata una passeggiata tra i vigneti, inframmezzata da degustazioni e convegni, con un manipolo di colleghi in prevalenza germanici, molto simpatici quanto assetati.

Sono loro che devono cogliere le qualità di un vino che sa essere anche intenso ed elegante, oltre che di buon prezzo. Va detto che le visite e le interviste si sono svolte interamente sulle colline che punteggiano il vasto (7 mila ettari) territorio vitato. E là si che nascono vini interessanti, che hanno profumi di fiori bianchi, garbo e persino serbevolezza da vendere. Non è chiaro, acclarato che il Soave può essere grande, quante bottiglie lo sono davvero.

In realtà la zona è abbastanza complicata da interpretare. L’etichetta non aiuta: quasi tutto il Soave è Soave doc (44 milioni di bottiglie) seguito dal Soave classico (13 milioni di bottiglie che altro non è che il Soave prodotto in una ristretta cerchia di comuni), mentre sono quantitativamente irrilevanti il Soave Superiore Docg, il Soave Spumante e il Recioto di Soave Docg.

I grandi vini e quelli meno indimenticabili si chiamano tutti Soave. Lì bisogna orientarsi.

Cominciamo dal vitigno. Il Soave di oggi è quasi tutto di Garganega, che ha profumi fini, insieme ad una bella struttura. Il Trebbiano di Soave (che qui si chiamava Turbiana, nome poi fatto proprio dal Trebbiano di Lugana) stava scomparendo: dava vini troppo delicati che si faticava a vendere. Oggi i Soave più intriganti, per complessità dei profumi e immediatezza di beva, sono quelli in cui rispunta il Trebbiano di Soave che è straordinario in purezza (ma la Doc non lo prevede oltre il 30%). Tra le novità anche lo Chardonnay (qui non interessante) e il Pinot bianco (che invece è straordinario, quando, con fatica, si riesce a produrlo).

Una seconda variabile è il terreno. Un terzo della zona è in pianura e già questo fa la differenza. Ma anche in collina si presentano situazioni diverse. Il vanto della zona sono i terreni vulcanici che danno al vino una sapidità e una mineralità in più, che già al naso si identifica benissimo. Ma gli affioramenti vulcanici sono sparpagliati tanto che una stessa azienda può avere il suo vino "vulcanico" ed il resto più banalmente su ciottoli sedimentari. Detto in parole povere: conoscere l’azienda non vi basta, dovete conoscere le singole linee di prodotto.

Poi ci sono le quantità di uva per ettaro. Il disciplinare del Soave dice che il massimo sono 140 quintali all’ettaro, il che consente di arrivare a 160 quintali con la tolleranza prevista. Per fare qualità anche da queste parti si deve scendere attorno ai 70 quintali ettaro (o, come dicono loro a 25 quintali a campo veronese che poco è più piccolo di un piò bresciano). A questi livelli si collocano i produttori migliori, facendo scelte drastiche come il biologico e il biodinamico o andando a coltivare ripe scoscese da viticoltura "eroica". In questi casi la vite non offre molto di più di 70 quintali e il gioco è fatto. Che lascia perplessi sono i numeri. Davanti a un grande bicchiere di Soave, magari "vulcanico", ti viene detto che le bottiglie sono 20 mila. E il resto? Va detto che non è la forza commerciale che manca. Il 38% del Soave viene prodotto e venduto dalla Cantina di Soave che è un colosso che, per di più, continua a crescere con nuove acquisizioni. Nei grandi numeri della mega cooperativa ci sono anche notevoli bottiglie.

Quindi desumere che «piccolo è bello» sarebbe sbagliato. Ci sono fior di cantine di dimensioni intermedie che hanno qualità e numeri. Sono quelle da tenere d’occhio più degli «eroi» della collina estrema.

Infine c’è la capacità del cantiniere. Da buoni veneti anche in Soave amano le botti vuote, ma un vino d’annata giovanissimo è un conto (ti rapisce al naso, ma ti abbandona ben presto in bocca), altro conto è un vino affinato più a lungo, meglio se sulle sue fecce fini. Abbiamo avuto modo, grazie alla famiglia Filippi di Castelcerino, di confrontare due Soave 2013 della stessa vigna, uno imbottigliato a febbraio, l’altro ancora in botte a giungo: un abisso. Non ci entusiasmano viceversa i lunghi invecchiamenti. Vero che un ottimo Soave può durare 10 anni, ma già ora il 2012 è al massimo della sua espressione e il 2013 lo sarà tra poco. Bella annata il 2013, fredda in primavera e calda d’estate, che ha sforbiciato (con le piogge di maggio) le quantità di uva per ettaro, facendoci, anche solo per questo, un grande favore.

Gianmichele Portieri

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