Svegliato al mattino da spari che ormai non hanno senso

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Nella regione di mondo dove vivo attualmente non c’è guerra. E neppure guerriglieri più o meno armati o tensioni sociali da far pensare allo scoppio di qualche piccolo conflitto a fuoco. Eppure, tutte le mattine d’autunno sono gli spari che mi svegliano. Spero che ciascuno di quei colpi vada a vuoto, che l’eco di saetta che percepisco, purtroppo non sempre, provenga effettivamente dal nulla e non da una vita spezzata, da un volo precipitato nella morte. Battiti d’ali di gioia o di soccorso, di gioco o di necessità, di viaggio o di risveglio mirati e colpiti per sempre, per diletto. Per sport. O per cominciare questa brumosa giornata togliendosi qualche bella soddisfazione, per tirarsi su il morale, per curare la propria autostima. «Sappiamo e possiamo cacciare» sembrano significare quei colpi secchi o doppi di fucile, «Sappiamo procurarci selvaggina» come se non vivessimo, in questa fortunata e strana regione del mondo, in un posto in cui per sfamarci o per far mangiare i nostri figli ci basta aprire il frigo. «Sappiamo e possiamo uccidere» significano invece probabilmente quegli appostamenti umidi, quelle attese adrenaliniche, quegli spostamenti nebbiosi o fangosi all’alba, prima di rituffarsi nella consuetudine, di annegare nell’abitudinaria e civile quotidianità, nell’irripetibile anonimato di affetti e mansioni: un dominio di strumenti di morte sulla natura, che è anche animale. E se invece, nella motivazione più nascosta e meno esponibile, ci fosse l’antico e troppo umano «Dobbiamo e vogliamo uccidere»? In assenza di necessità alimentari, dal momento che il lavoro sporco lo fanno i macelli e i pensionamenti per bipedi e quadrupedi con accetta o gas finali, o di nemici in divisa, invasori o invasi che siano, il quesito che ci si pone è dunque dove si possa andare a sparare per ammazzare senza essere perseguiti. Acquietare quelle proprie aggressività estreme e che la Storia ci indica quasi come normali, naturali, contro bestie in movimento, meglio se in volo così da elevare il tasso di difficoltà e di propria perizia. Nei boschi, appena fa chiaro, procedendo magari in tuta mimetica, stivaloni, morte a tracolla e, spesso, animali complici per riporto. Veder morire, procurare dolore definitivo, affermare la propria superiorità, il proprio dominio spietato, spezzare una vita altrui non tenendo alcun conto di storia e sentimento: non è forse questo l’antichissimo dovere di ogni buon soldato? Quello che diventa, sotterrando qualunque fede o ideologia, il diritto del vincitore e la celebrazione, posticcia prima che diventi postuma, di un conclamato trionfo. Ascolto spari e non sento tonfi, cadute. Ma so che ci sono. Non guardo fuori, non scruto il cielo. Preferisco immaginarlo libero e affollato di passaggi e ricami di richiami senza timori. Caccio via questa caccia, copro il sonoro della realtà diffondendo e ascoltando musica classica a tutto volume. Capisco che sto fuggendo ma altro non so fare, altro non so affrontare.

// Giuseppe Raspanti

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