I giovani africani e il diritto di non emigrare

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Il problema del continuo flusso di migranti che interessa tutta l’Europa è l’argomento più trattato nei telegiornali e sui quotidiani a tiratura locale e nazionale. Il pensiero, che è ormai «omologato» nei citati organi d’informazione in relazione al problema, pare essere il seguente: «Ci sono masse di persone che per fame hanno il diritto assoluto e indiscriminato di emigrare nei nostri Paesi». È lecito chiedersi: «Se le attuali migrazioni fossero davvero scatenate dalla fame, non sarebbe opportuno tentare di risolvere il problema con un piano d’aiuti alimentari come quello messo in atto per l’Europa alla fine del 2° conflitto mondiale, piano che eviterebbe agli affamati di mettersi nelle mani di "mercanti della morte" al costo di 3.000-4.000 euro a persona?» Avevo sempre ritenuto che il diritto primario dell’uomo fosse quello di «vivere nella propria Patria»; la terra dove ogni persona vede crescere e consolidarsi le proprie radici a partire dal primo vagito, anche se in condizioni di estrema povertà (come non di rado avviene ed è avvenuto anche in Europa). Sono convinto che prima del «diritto di emigrare» debba essere sostenuto con ogni mezzo e con forza il «diritto a non emigrare e cioè a essere messo in condizioni di rimanere nella propria terra». Credo comunque che stia emergendo (in merito al problema immigrazione) un nuovo pensiero diverso da quello «omologato» sopra sinteticamente da me riportato. È quello che emerge (non sempre con sufficiente evidenza mediatica) nell’ambito dell’Episcopato africano che sostiene con forza il «dovere di non emigrare» invitando i giovani del proprio Paese «a non cercare illusorie scorciatoie di benessere con la fuga dal proprio Paese natale» invitandoli, invece con forza, a «utilizzare i propri talenti e le risorse disponibili per rinnovare e trasformare il proprio territorio natio, promuovendo la giustizia, la riconciliazione e la pace». L’appello rivolto a tutti, specie a chi fugge, è accorato: «L'Africa ha bisogno di voi!». Mi auguro che la sollecitazione sia raccolta e praticata, in particolare, dalla gioventù africana. In quanto, credo, sia l’unica strada da percorrere per la salvezza del continente africano. È un’illusione la mia? Non credo. Ho vissuto la mia fanciullezza in alta Valcamonica durante l’occupazione tedesca che ha visto il progressivo consolidarsi della Resistenza, promossa inizialmente da pochi partigiani, supportati logisticamente, nonché protetti dalla maggioranza della popolazione, nonostante le minacce e le rappresaglie messe in atto con fucilazioni, incendi di baite e case dei valligiani, che, peraltro, vivevano una povertà quasi francescana: una fetta di polenta al mattino presto per colazione e pranzo; poi il lavoro nei campi; a merenda, nel primo pomeriggio, un pezzo di pane di segale; poi, prima del buio, una scodella di minestra fatta, con amore e cura: abbondante acqua con un pesto di lardo, una patata e una piccola manciata di riso o di pasta per ogni persona. Poi il meritato riposo. Non ricordo, infatti, di aver incontrato allora persone obese. Ma neppure qualcuno che proponesse di emigrare nella vicina e pacifica Svizzera, raggiungibile, peraltro, attraverso agevoli e sicuri sentieri montani, giornalmente percorsi dagli spalloni che alimentavano il fiorente mercato nero. Mi sono chiesto come mai i nostri padri, reduci fortunati dalle disastrose prima e seconda guerre mondiali abbiano voluto con impegno diretto o indiretto partecipare compatti alla resistenza. La risposta più convincente l’ho trovata rileggendo uno stralcio del primo numero del «Ribelle» pubblicato il 5 marzo 1944. Scrive il cattolico Olivelli: «L’ardore religioso non è in contrasto con l’impegno politico, anzi lo esige, mai ci sentimmo così liberi come quando ritrovammo nel fondo della nostra coscienza la capacita di ribellarci... lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere largita da altri, non vi sono liberatori. Solo uomini che si liberano, siamo consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra coscienza nella nostra volontà di risurrezione, di combattimento, nel nostro amore. Niente vi è più da salvare, la parola d’ordine è ricostruire». Credo che questo sentire sia esistito in tutti coloro che hanno in qualche misura partecipato al movimento di resistenza che ha fatto rinascere la nostra Patria dal buio della dittatura e dall’occupazione straniera. L’Africa potrà salvarsi solo attraverso un’analoga difficile strada e non fuggendo dal Paese natio. // Alberto Minelli Castrezzato

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