Valcamonica

Novant'anni fa la tragedia della diga del Gleno

Era il primo dicembre 1923: la diga crollò, cancellò Darfo e provocò 500 morti
Teletutto: Gleno, il ricordo a 90 anni dalla tragedia
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Si racconta che, quell’alba di novant’anni fa, l’apocalisse fu annunciata dal rumore sordo di un tonfo, un brontolio liquido e invisibile.

«Esco sulla passerella della diga e sento come un rumore di sassi che cadono nel lago», raccontò Cesco Morzenti, guardiano del Gleno e testimone chiave al processo sul disastro. Uno, due, tre tonfi, una scossa. Poi un’altra. «Accendo un fiammifero e vedo una crepa che si apre a vista proprio sul pilone più alto». È l’ultimo fotogramma che annuncia l’imminenza del disastro, il momento prima del cataclisma annunciato. Corre verso la cabina di controllo e si attacca al trasmettitore. «La dig...!».

Alle 7 e 15 di sabato primo dicembre 1923, una montagna di sei milioni di metri cubi d’acqua trova la fessura giusta nella fiancata malata della grande diga capolavoro dell’Italia del dopo guerra: sbriciola il calcestruzzo, e prima di arrivare, inesorabile, sulle case, già bagna il naso a speculatori e furbastri che per anni avrebbero occupato i tribunali biascicando alibi poco convincenti e inventando teorie inverosimili di attentati fascisti pur di scrollarsi di dosso il peso della più grave strage di innocenti che la Valcamonica possa raccontare.

Morirono in 500, all’alba del primo dicembre di novant’anni fa. E chi si salvò dal gorgo maligno delle acque assassine, visse per sempre ripetendo: «non puoi immaginare il Gleno se non l’hai vissuto», annaspando nelle paure, succube del ricordo di quei corpi straziati ripescati per giorni e giorni nel lago d’Iseo.

Un muro d'acqua alto decine di metri passò dai 1.500 metri di quota dell’alta Val di Scalve ai 250 metri del Fiume Oglio in meno di 45 minuti.

L’unica diga al mondo costruita metà a gravità e metà ad archi multipli si polverizzò sei mesi dopo la fine dei lavori e tutti - deposizioni giurate alla mano - sapevano che non sarebbe stata in piedi a lungo.

«Si lavorava male e si buttavano dentro carrettate di ghiaia, non di cemento», dichiararono per anni i testimoni.

In quel 1923 piovoso come pochi, il serbatoio raggiunse il livello massimo meno di un mese prima del disastro e il 1° dicembre 1923, la fine del mondo arrivò dalle valle stretta del Gleno, una monorotaia su cui correva a velocità impazzita un treno d’acqua che pesava cinque milioni di tonnellate.

Il telefono squillò, alle 7 e 15, nella prima centrale ai piedi della diga. «La dig...!». Poi, il buio. Si racconta che l’acqua «esplose» in due colonne, mentre la terra diventava liquida e un terremoto cominciava a scuotere le case e il vento a sradicare le piante. Quello stesso vento umido che «schiaccia il prete di Bueggio sulla porta della chiesa», prima che l’onda si porti via il cimitero e la chiesa col sagrestano.

L’acqua punta verso sud e mangia metà Dezzo di Azzone, poi sbatte sulla sponda sinistra e con un rimbalzo rade al suolo Dezzo di Colere. Su 500 abitanti, ne morirono 209. L’onda della morte si infila nella forra della Via Mala, la riempie fino ad incidere la roccia a decine di metri altezza e quando passa ad Angolo Terme e Gorzone, il muro d’acqua lesiona i ponti, allaga i piani terra delle case, ma non fa morti per miracolo. Un’ora dopo, la valanga liquida esce dalla forra, cambia direzione e si abbatte su Darfo portandosi via case, fabbriche, persone.

Contarono 500 morti perché furono gli unici che ritrovarono. Fu una guerra senza guerra, quella del primo dicembre 1923.

Sergio Gabossi

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