Brescia insorge: torna il vento della libertà

La cronaca di quei giorni: il 25 i prigionieri evadono da Canton Mombello, il 26 il Cln ordina la sollevazione
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«La città, tutta imbandierata, è calma. La folla fraternizza coi patrioti, assoluti padroni della città nostra. E in piazza della Vittoria si accalca pure intorno ai carri armati delle truppe anglo-americane arrivate entro l’abitato urbano nelle prime ore del pomeriggio». Così scrive Il Giornale di Brescia nel suo primo numero, il 27 aprile 1945. Brescia è libera. Il 25 aprile funzionari fascisti, attraverso il vescovo Giacinto Tredici, hanno preso contatto con il Cln (Comitato di liberazione nazionale) per il trasferimento dei poteri. Sanno che ormai è finita. Lo stesso giorno i prigionieri politici evadono in massa da Canton Mombello.

Giovedì 26 arriva l’ora tanto attesa dagli antifascisti. Il mattino il Cln proclama l’insurrezione: «L’odiato nemico tedesco-fascista - si legge nel volantino diffuso in città - che da tanto tempo calpesta il nostro suolo e martirizza le nostre popolazioni è in rotta! Una nuova era di libertà democratiche si inizia! Ora, più che mai, è necessario che tutte le energie siano unite e concordi per superare le immani difficoltà del momento». Il testo è firmato da Democrazia cristiana, Partito d’Azione, Democrazia del lavoro, Partito socialista, Partito liberale e Partito comunista. Nei dirigenti politici che assumono il controllo di Brescia c’è già la preoccupazione per il dopo, per la ricostruzione da attuare nella condivisione.

Intanto, bisogna completate l’opera. Quel giovedì 26 i partigiani occupano la caserma «Papa» e il Castello, mentre in vari punti della città si registrano sparatorie con i tedeschi e i fascisti. Al poligono di Mompiano, per rappresaglia, prima di ritirarsi, i nazisti fucilano una famiglia, lasciandosi alle spalle l’ennesimo orrore. Scontri avvengono anche in provincia: nove insorti muoiono a Bedizzole, dodici a Coccaglio. La scia di sangue proseguirà oltre il 26, rabbiosa coda dei tedeschi in ritirata. Il 27, a Rodengo Saiano, le SS fucilano dieci partigiani. In Valcamonica e in Valsabbia si combatte ancora. Il 29 aprile termina la battaglia del Mortirolo, ingaggiata dalle Fiamme verdi. L’ultimo scontro coi tedeschi avviene l’1 maggio a Monno. Solo il 2 anche l’alta Valcamonica sarà libera.

La Resistenza nel Bresciano è stata un fenomeno di popolo, per il numero delle formazioni, gli appoggi, il consenso, la diffusione su tutto il territorio. Nella nostra provincia hanno operato (talvolta con rivalità politiche e militari) le cattoliche Fiamme Verdi (soprattutto in Valcamonica e in pianura), le Brigate Garibaldi comuniste (Valtrompia), le Brigate Matteotti socialiste (Valsabbia), gruppi di Giustizia e libertà e gruppi autonomi. Rolando Anni, nel suo «Dizionario della Resistenza Bresciana» edito dalla Morcelliana, parla di 5.074 combattenti e di 1.702 vittime della guerra di liberazione. Non bisogna dimenticare che Brescia ospitava la Repubblica di Salò, e dunque era in prima linea contro fascisti e tedeschi. In città il carcere di Canton Mombello, con trecento posti, arrivò a contare mille detenuti; altri venivano tenuti (e torturati) nelle diverse prigioni: la gendarmeria tedesca in via XX Settembre, in piazza Loggia c’era la XV legione fascista Leonessa, in via Panaromica operavano gli aguzzini comandati da Erich Priebke (l’esecutore delle Ardeatine), e poi la caserma dell’Arsenale in via Crispi, la questura in via Musei, il Castello (dove il 24 marzo 1945 avvenne l’ultima fucilazione, quella della fiamma verde Giacomo Cappellini).

Il martirologio della Resistenza è lunghissimo, comprende operai, intellettuali, artigiani, uomini e donne di tutte le età, le condizioni sociali, le fedi politiche. Certamente il territorio più coinvolto fu la Valcamonica, dove si concentrava il maggior numero di bande. Scontri diretti, rastrellamenti, eccidi nazifascisti che non risparmiavano le popolazioni. Basti pensare alla distruzione di Cevo, data alle fiamme il 3 luglio del 1944. Poche settimane dopo, stavolta in Valtrompia, un altro esempio di efferatezza: il massacro di quindici civili e l’incendio di alcune case a Bovegno, nella notte fra il 15 e il 16 agosto.

Il battesimo del fuoco per i partigiani avvenne alla Croce di Marone, il 9 novembre 1943. Un disastro costato dieci morti, una lezione per gli altri gruppi: non si poteva combattere fascisti e tedeschi con bande numerose e poco mobili. Serviva fare proprio il contrario.

La voce delle Fiamme verdi, «Il ribelle» nato a Brescia per volontà di Teresio Olivelli e Claudio Sartori, così scrisse a liberazione avvenuta, nel numero di maggio: «La libertà è una lenta conquista, un costruzione interiore ed una abitudine alla ordinata convivenza nella società». Il fascismo era sconfitto, ma la libertà andava curata, giorno dopo giorno. Allora come oggi.

Enrico Mirani

 

 

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