Leopardi e l’elogio del dubbio

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«La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere.» Queste parole, riferite alla sorella Paolina e che oggi possiamo leggere nello Zibaldone, segnano uno dei punti più alti della pellicola cinematografica attualmente nelle sale intitolata «Il giovane favoloso», che ripercorre la vita di Giacomo Leopardi. La ricerca del vero è punto nodale nella riflessione poetica e filosofica di Leopardi. Basti pensare, a puro titolo di esempio, al «Canto di un pastore errante dell’Asia» (1828-1830), ove il poeta recanatese, sotto le spoglie di un pastore, pone quesiti esistenziali alla Luna, simbolo metafisico alla stregua di un profeta di Dio. Questi riguardano soprattutto il fine dell’esistenza, perché «alcun frutto indovinar non so: (…) a me la vita è male».Qual’è il fine del vagar immortale della Luna, quale quello del vagar mortale del pastore, simile alla faticosa salita di un vecchio per un pendio, che si concluderà con un fatal burrone? Perché questo «eterno scolorar del sembiante», sublime espressione che indica la corruzione, il disfacimento, il processo creazione-disgregazione, voluto dalla Natura e già oggetto d’esame nel «Dialogo della Natura e di un islandese»? Se già il nascere rappresenta un rischio di morte, e il compito più importante di chi ci pasce in altro non sta che nel rincuorarci della nostra venuta sulla Terra; se il piacere effettivo, unico scopo che l’uomo ricerca, è irraggiungibile e la mancanza di dolore di per sé non è piacere, ma noia, perché vivere? Il pastore, presumendo che siano solo gli esseri umani, dotati di maggior sensibilità e intelletto, a provare noia, invidia dunque il gregge, «perché giammai tedio non provi». La «comprension del vero» porta con sé tristezza; sensibilità, intelletto e auto-coscienza noia, tedio. Ma vero è semplicemente riconoscere quanto è fragile l’essere umano: non è la scoperta di una grande legge che domina l’universo, perché «arcano è tutto, fuor che il nostro dolor» e «i destinati eventi move arcano consiglio». Nell’«Ultimo canto di Saffo» (1823) emerge la semplice constatazione che, se è vero che nessuno è mai vissuto felice sulla Terra, non lo potrà essere nemmeno Faone. Saffo, come ogni essere umano, è «grave e vile ospite addetta, dispregiata amante»: la Natura è una matrigna, una padrona di casa che, invitati gli ospiti, d’essi non si cura. Strumenti consolatori non devono essere «gli inganni dell’intelletto», che fanno credere all’uomo: «al goder son fatto!», illusioni che pungolano l’umanità a porre le basi fondanti della società su «superbe fole», ma un altro tipo di illusioni: quelle della poetica emotiva, ingenua e corporale degli antichi, caratterizzata dall’indeterminato, dall’indefinito, dal raro, dal lontano, dall’antico, dal peregrino. «L’infinito» (1819) è proprio l’esempio del piacere («tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare») dato dal superamento, per mezzo dell’intelletto, del confine spazio-temporale. Così, in «Alla luna» (1819-1820), per quanto l’oggetto della ricordanza, e poi rimembranza, sia di per sé triste, poiché la gioventù del poeta fu tribolata, ciononostante l’atto del ricordare è piacevole, perché richiama alla mente la fanciullezza, età delle dolci illusioni. Ma tutto passa «e quasi orma non lascia»: il dì volgare succede al festivo e il canto che si ode in lontananza lentamente, ma inesorabilmente, svanisce. La gioia e la speme del sabato precedono la noia, la tristezza e «l’usato travaglio» della domenica, così come la maturità, tragico momento del rendersi conto, rompe l’estasi illusoria, ma quanto mai, per chi la vive, reale della fanciullezza. È per questo che non bisogna attendere impazientemente l’età adulta: le sorprese che ci riserverà non saranno piacevoli. Il piacere, infatti, non è mai presente: è speranza nel futuro o ricordo del passato («frutto del passato timore, gioia vana: uscir di pena è diletto fra noi»). Il che «è quanto dire: è sempre nulla». A siffatta concezione della conoscenza del vero non può che accompagnarsi una severa critica nei confronti del supposto progresso. In Leopardi essa si concentra principalmente nelle «Operette morali» (1827) e nella Ginestra (1836) ed è compiuta per mezzo di una sferzante condanna al proprio secolo, definito come il «secol della morte», il secolo delle masse (ove l’individuo non conta più nulla, il mediocre cede il posto al pessimo e la cultura è figlia delle «gazzette»), il «secol superbo e sciocco», che si bea di quelle che crede «magnifiche sorti e progressive», che «libertà va cercando» rendendo schiavo il pensiero, che mostra le spalle al vero in favore di «superbe fole», che inneggia all’antropocentrismo anziché riconoscere nella Natura un nemico comune da combattersi compattamente. Da codesta riflessione sull’esistenza umana Giacomo Leopardi non giunge però alla conclusione che si debba rinunciare alla vita e dedicarsi completamente e solo agli studi: già il Tristano delle Operette Morali afferma che i libri sono nulla. Ed è proprio a quegli anni che risale quella che probabilmente è la poesia più intima ed autobiografica di Leopardi: «Il passero solitario». In essa l’autore traccia innanzitutto una breve quanto intensa descrizione del suo trascorrer di giovinezza: «Sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, e te german di giovinezza amore, sospiro acerbo de’ provetti giorni, non curo, io non so come; anzi da loro quasi fuggo lontano». Indi, sottolinea la distonia tra sé e la Natura: da una parte, il passero, solitario per natura; dall’altra, il poeta, solitario perché incapace d’esser altro. «Pentirommi, e spesso, ma sconsolato volgerommi indietro». Lorenzo Azzi Brescia

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